Legittimo l'accertamento con il quale l'ufficio attribuisce al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, sempreché riesca a dimostrare, anche attraverso presunzioni qualificate, che tali somme appartengono, in realtà, al contribuente accertato.
Infatti, la finalità elusiva prevista dal terzo comma dell'articolo 37 del Dpr n. 600/1973 - in quanto volta a impedire che, attraverso operazioni commerciali compiute mediante negozi giuridici conformi all'ordinamento, si realizzi lo scopo di sottrarre alla corretta tassazione, in tutto o in parte, il reddito prodotto e imputabile al medesimo soggetto giuridico - prescinde dalla realizzazione di un comportamento fraudolento e non esaurisce il proprio ambito operativo nella fattispecie della simulazione (interposizione fittizia), ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali (interposizione reale).
Questo il principio di diritto affermato dalla Cassazione nell'ordinanza n. 13089 del 25 luglio, che ha risolto ancora una volta a favore dell'Agenzia - in conformità a un orientamento giurisprudenziale consolidato (da ultimo, Cassazione, sentenza 12788/2011) - l'ennesima controversia in materia di abuso del diritto.
I fatti di causa
La vicenda trae origine da un avviso di accertamento con il quale l'Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione la plusvalenza realizzata da un contribuente a seguito della cessione di un terreno che, precedentemente, aveva donato alla figlia.
Nello specifico, l'interessato aveva dapprima firmato un preliminare di vendita di un terreno - incassando il relativo acconto, che non risulta essere stato mai restituito al promissario acquirente - successivamente, ossia nelle more della stipula del contratto definitivo, aveva donato lo stesso terreno a sua figlia che, quale donataria, aveva poi rivenduto definitivamente l'immobile al promissario acquirente.
Il recupero d'imposta in capo al contribuente avveniva, da parte Agenzia delle Entrate, sulla base dell'articolo 37, terzo comma, del Dpr 600/1973, secondo cui "in sede di rettifica o di accertamento d'ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l'effettivo possessore per interposta persona".
Il giudice d'appello, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva il gravame proposto dal contribuente e annullava l'atto impositivo, con una pronuncia impugnata in Cassazione da parte dell'Amministrazione finanziaria, sulla base di una presunta violazione e falsa applicazione del citato articolo 37.
La decisione della Cassazione
La Corte suprema accoglie il ricorso, nella considerazione che la sentenza d'appello è fondata, erroneamente, sul mero fatto dell'effettiva percezione da parte della donataria del corrispettivo della vendita perfezionata a seguito della stipula del preliminare da parte del donante e sull'inapplicabilità della normativa repressiva delle operazioni preordinate per eludere la tassazione della plusvalenza.
Al riguardo, la Corte di legittimità precisa che - in applicazione di un principio generale antielusivo, desumibile dall'articolo 53 della Costituzione, nonché dalle norme comunitarie - "…in tema di imposte sui redditi, l'inapplicabilità ratione temporis di una norma non esclude la possibilità di dichiarare inopponibili all'amministrazione finanziaria...i benefici fiscali derivanti dalla combinazione di operazioni a ciò volte (Cass. n. 255372011; Cass. Ordinanza n. 21371 del 4/10/2006)".
La fattispecie in esame, prosegue la Corte suprema, risulta comunque riconducibile al richiamato articolo 37, terzo comma, del Dpr 600/1973, in quanto "…in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la disciplina antielusiva dell'interposizione… non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l'applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto di imposta".
In altri termini, secondo la Cassazione, il fenomeno della simulazione relativa - nell'ambito del quale può ricomprendersi la interposizione personale fittizia - non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo mediante operazioni effettive e reali (caratterizzate dalla coincidenza tra la situazione reale, appunto, e quella formale), nelle quali difetta del tutto l'elemento caratteristico dei negozi simulati costituito dalla divergenza tra la dichiarazione esterna e la effettiva volontà dei contraenti o meglio dalla relazione funzionale, integrante la causa unitaria, che intercorre tra il negozio apparentemente stipulato (simulato) e quello effettivamente concluso dalle parti (dissimulato).
Circa la prova della natura elusiva delle operazioni poste in essere dal contribuente, la stessa può ben scaturire, secondo la Corte, "…da presunzioni, spettando allo stesso contribuente fornire la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti con carattere non meramente marginale o teorico (Cass. n. 8772/2008; Cass. n. 20816/2005)".
Nel caso di specie, deve rilevarsi che il mancato rispetto degli obblighi assunti dal contribuente con il preliminare stipulato e il brevissimo lasso di tempo (pochi mesi) intercorso tra il preliminare di vendita, la donazione dell'immobile in questione a sua figlia e la vendita definitiva da parte di quest'ultima al promissario acquirente, "…inducono a ritenere - in assenza di spiegazioni alternative da parte del contribuente - che si tratti di un'unica operazione preordinata a fini elusivi".
Osservazioni
Due sono gli aspetti salienti contenuti nella sentenza in commento.
Il primo è che non hanno efficacia nei confronti dell'Amministrazione finanziaria gli atti posti in essere dal contribuente che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale; il secondo è che spetta al contribuente fornire la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o teorico, tali da giustificare le operazioni stesse.
Con riferimento all'onere probatorio, all'ufficio basterà fornire anche elementi indiziari che fanno ritenere che le operazioni, attuate mediante utilizzo di schemi negoziali tipici o atipici, debbano essere considerate come irragionevoli in una normale logica di mercato e, dunque, prive di reale contenuto economico diverso dal risparmio di imposta, mentre grava sul contribuente l'onere di allegare la esistenza di ragioni economiche che giustifichino operazioni in quel modo strutturate.
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